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 I pagamenti lumaca della PA fanno soffrire le Pmi

Nel 2023 lo Stato italiano ha sostenuto un costo complessivo di 122 miliardi di euro, ma non è riuscito a onorare tutti gli impegni economici presi con i fornitori. I debiti commerciali della nostra PA continuano ad ammontare a circa 50 miliardi di euro, lo stesso importo da almeno 5 anni. E le più penalizzate da questo comportamento sono le Pmi. 

Nelle transazioni commerciali con le aziende private la nostra PA sta adottando una prassi che l’Ufficio studi della CGIA definisce ‘diabolica’. Salda le fatture di importo maggiore entro i termini di legge, mantenendo così l’Indicatore di Tempestività dei Pagamenti (ITP) entro i limiti previsti dalla norma, ma ritarda intenzionalmente il saldo di quelle con importi minori, penalizzando le imprese fornitrici con volumi bassi, le piccole imprese.

Una forma di abuso

Non solo. Da qualche tempo si è consolidata una nuova pratica ‘imposta’ da molti dirigenti pubblici, anche di società collegate a regioni ed enti locali, che decidono unilateralmente quando i fornitori devono emettere la fattura, cioè solo quando l’Amministrazione dispone dei soldi per liquidarla. Se questi ultimi non si ‘attengono’ a questa disposizione, lavorare in futuro per loro sarà difficile. Una forma di abuso della posizione dominante che risulta ‘ripugnante’.

Comuni del Sud peggiori pagatori

Tra le Amministrazioni pubbliche più ‘lumaca’ a pagare i propri fornitori sono i Comuni, in particolare quelli del Mezzogiorno. Sebbene negli ultimi anni la situazione sia migliorata, nel 2023 i dati più critici si sono registrati a Napoli, dove i fornitori sono stati pagati con 143 giorni di ritardo. In contro tendenza Palermo, che nel 2023 ha liquidato i partner commerciali con 65,5 giorni di anticipo. Nessun altro comune capoluogo di provincia d’Italia ha fatto meglio.

Al Centronord, al netto di Imperia (22,11 giorni di ritardo), Viterbo (+19) e Alessandria (+14,98), quasi tutti gli altri comuni capoluogo di provincia pagano in anticipo. Le situazioni più virtuose riguardano Padova, Grosseto e Pordenone, con un anticipo del saldo di oltre 21 giorni.

Neanche i ministeri rispettano la norma

Anche i ministeri italiani faticano a rispettare le disposizioni previste dalla legge in materia di tempi di pagamento riferiti alle transazioni commerciali. L’anno scorso 9 ministeri su 15 (il 60%) hanno liquidato i propri fornitori in ritardo rispetto alle scadenze contrattuali. Maglia nera il ministero del Turismo (ritardo di 39,72 giorni), seguito da Interno (33,52), Università e la Ricerca (32,89), Salute (13,60). Il ministero dell’Agricoltura, Sovranità alimentare e Foreste ha pagato con un anticipo di 17 giorni. 

Perché, allora, i debiti commerciali della PA rimangono attorno ai50 miliardi? 
Non è da escludere che la condotta di buona parte degli enti pubblici locali e centrali sia quella di pagare le fatture correnti entro i tempi previsti dalla legge e tralasciare il pagamento delle più datate.

Gli studenti soffrono di eco-ansia: il 76% preoccupato per la salute del Pianeta

Il cambiamento climatico è sempre più visibile e il costante aumento del costo della vita sono temi fondamentali per gli italiani ed europei. L’eco-ansia, ovvero la sensazione di disagio e paura che si prova al pensiero di possibili disastri legati ai cambiamenti ambientali, colpisce sempre più giovani. In Italia, il 76% è preoccupato per il futuro del pianeta, e oltre 2 su 3 pensano che lo spreco di cibo sia il fenomeno che incide maggiormente in modo negativo sull’ambiente (70%).

Ridurre gli sprechi è quindi una soluzione per contrastare il cambiamento climatico (78%). Una consapevolezza che si traduce nelle scelte di consumo quotidiane, influenzate anche dal caro vita.
È uno dei dati emersi dal sondaggio condotto da Too Good To Go in collaborazione con ISIC – la Carta d’Identità Internazionale degli Studenti in Italia, Francia, Spagna e Portogallo.

Giovani consapevoli dello spreco alimentare

Lo spreco alimentare come causa del climate change è considerato secondo solo all’uso della plastica (74%) e lo spreco di acqua (60%) e primo nella categoria di spreco di risorse ambientali.

Una consapevolezza in linea con i dati espressi dall’Eurobarometro, secondo il quale circa tre quarti dei giovani (76%) affermano di provare ad adattare il proprio stile di vita per ridurre al minimo l’impatto sull’ambiente.
Tra gli accorgimenti per ridurre gli sprechi, oltre all’utilizzo di app antispreco, gli studenti italiani indicano la pianificazione dei pasti e un’accurata lista della spesa. Tra le spese ridotte a causa dell’aumento dei prezzi, gli studenti indicano cenare fuori (98%) e ordinare i pasti a domicilio (53%). 

L’Europa deve agire a livello legislativo

L’importanza di azioni e interventi legislativi da mettere in pratica per arginare il problema è molto sentita tra i più giovani. Più di un intervistato italiano su 2 (56%), dichiara di aver fiducia nelle istituzioni europee. Un sentiment di fiducia positivo, inferiore rispetto a quanto registrato in Francia (70%) e Spagna (80%).

Ma insieme alle ridotte spese relative al cibo, emerge anche una maggiore attenzione alla sostenibilità. Nove studenti su 10 sprecano meno del 10% del cibo che acquistano, e il 59% ne spreca meno del 5%.

Servirebbero almeno 100 euro in più al mese per mangiare correttamente

Queste basse percentuali sono spiegate anche dalla maggiore attenzione che gli studenti dedicano alla pianificazione dei pasti (41%) o alla lista della spesa (54%), in aggiunta a soluzioni che aiutano ad acquistare cibo in maniera più sostenibile e attenta grazie a soluzioni antispreco.
Nonostante questi accorgimenti, circa la metà (47%) avrebbe però bisogno di un ulteriore budget mensile, quantificato in almeno 100 euro per poter mangiare bene e correttamente.

Nel primo trimestre 2024 spariti più di quattro negozi all’ora

Nei primi tre mesi del 2024 sono scomparse quasi diecimila imprese del commercio al dettaglio (9.828), per una media di oltre quattro negozi in meno ogni ora. Un crollo cui corrisponde la crescita inarrestabile degli acquisti online, che secondo le stime di Confesercenti, lieviteranno del +13% nel corso del 2024.
Insomma, le vetrine continuano a spostarsi dalla strada alla rete.

Lo scambio tra vetrine e pacchi, però, non è alla pari per l’economia dei territori. Con la migrazione degli acquisti verso le piattaforme internazionali di e-commerce, che spesso pagano le imposte in altri paesi, migra anche il gettito fiscale generato dai negozi. 

Chiusure e denatalità delle imprese

A pesare sono le chiusure, 17.243 tra gennaio e marzo, ma soprattutto la frenata della natalità delle imprese.
Le aperture di nuove attività continuano infatti a diminuire, e nel primo trimestre di quest’anno sono state solo 7.415. Dieci anni fa erano più del doppio. Colpa delle difficoltà per le neoimprese di affrontare un mercato sempre più dominato da grandi gruppi e giganti dell’online.

La desertificazione delle attività commerciali colpisce tutto il territorio nazionale, anche se a registrare i saldi peggiori sono le regioni con un tessuto commerciale più sviluppato. In termini assoluti, a subire la perdita più rilevante di imprese è la Campania, con un saldo negativo di -1.225 attività commerciali nel trimestre, seguita da Lombardia (-1.154) e Lazio (-1.063).

Meno vetrine, boom di consegne

Rispetto al 2012, tra chiusure e mancate aperture, il numero di negozi di vicinato al servizio della comunità è calato del -14,3% circa. In media, ci sono 12 imprese ogni mille abitanti.

Se le vetrine scompaiono, e con loro il servizio sul territorio per i cittadini, le consegne di acquisti online, invece, fanno boom. In poco più dieci anni le consegne sono cresciute di quasi dieci volte: erano 75milioni circa nel 2013, quest’anno dovrebbero arrivare a 734 milioni a livello nazionale, di cui oltre un terzo nelle tre regioni più interessate, Lombardia (124 milioni di consegne), Lazio (71 milioni circa), Campania (69,6 milioni).

Si riduce la base imponibile per il fisco

Dal 2014 a oggi il tessuto commerciale italiano ha perso oltre 92mila imprese,  e con loro, l’Irpef, la tari, e gli altri tributi pagati dai negozi.
In media, la desertificazione commerciale ha portato a una perdita cumulata di 5,2 miliardi di euro di tasse negli ultimi dieci anni. A perderci, fisco centrale ed enti locali.

Del gettito sfumato, il 17,4% (910 milioni) sarebbe stato di IMU, il 12,6% (660 milioni) di TARI, il 42,7% (2,24 miliardi) di Irpef, a cui si aggiungono 223 milioni (4,3%) di addizionale regionale e comunale Irpef, 700 milioni di euro di Irap (il 13,4%) e 510 milioni di euro di altri tributi comunali (9,7% del totale).

Lavoro: saremo scartati o assunti dall’Intelligenza artificiale?

L’Intelligenza artificiale è, e sarà, sempre più centrale sia per essere assunti sia per trovare le giuste risorse. In pratica, sarà sempre più indispensabile per lavorare. Tanto che per il 76% dei Direttori del personale AI e Big Data stanno già influenzando la gestione dei talenti in azienda, e le decisioni relative ad assunzioni, promozioni, formazione e sviluppo.

D’altronde, il 97% degli HR a livello globale (94% Italia) ha già utilizzato le nuove tecnologie digitali per migliorare le tre fasi cruciali del recruiting: attrarre, coinvolgere e fidelizzare i talenti.
I dati emergono dal Talent Trends Report di Randstad Enterprise, condotto in 21 Paesi attraverso un sondaggio su un campione di oltre 1000 human capital leader di grandi organizzazioni e diversi settori.

Ancora poco usata dai recruiter italiani

Ma l’Intelligenza artificiale apre le porte anche a un percorso professionale più dinamico e in linea con le proprie competenze, e il 65% degli HR ha investito in strumenti digitali per favorire la mobilità interna dei talenti.

Per ora, a un anno e mezzo dal boom di ChatGPT, ancora pochi HR utilizzano direttamente l’Intelligenza artificiale per identificare profili ad alto potenziale e ricercare competenze specifiche (30% mondiale, 14% Italia). Dati che dovrebbero far scattare un campanello d’allarme sulla reattività del nostro sistema.

Le sfide per l’HR del futuro

Secondo la ricerca Randstad, gli HR di tutto il mondo individuano due grandi sfide per il futuro, ed entrambe riguardano le competenze: maggiore concorrenza per le competenze di difficile reperibilità, e crescente carenza delle competenze specialistiche.
Emerge poi una sfida di più ampio respiro, che tocca le radici del sistema lavoro italiano, ovvero l’incapacità di attrarre candidati qualificati.

Questo problema, unito alle previsioni future fatte dagli HR, rischia di rendere poco efficiente la ricerca di personale in un Paese che già ora registra una delle più basse produttività dell’area Ocse e una profonda crisi di competenze.

Vietato farsi scappare i talenti con competenze specifiche

Ma la situazione nel Belpaese è delicata anche a causa della crisi demografica, che incide sulla situazione economica e che da essa, almeno in parte, dipende.
Insomma, riferisce Adnkronos, le persone con le competenze richieste dal mercato saranno poche, ed è vietato lasciarsele sfuggire.
Per questo, diventa cruciale l’utilizzo dell’Intelligenza artificiale.

Intanto, agli HR viene chiesto di fare sempre di più, ma con meno budget e meno personale. Come testimoniato dal 64% degli intervistati, sia a livello globale sia in Italia.

Investimenti infrastrutturali, al primo posto quelli per la GenAI 

Per qualsiasi azienda che voglia essere resiliente e flessibile l’infrastruttura digitale è oggi necessaria. Solo così le imprese possono avere il supporto fondamentale per gestire i carichi di lavoro e le applicazioni guidate dalle nuove tecnologie, specie l’intelligenza artificiale (IA). Tutti processi che richiedono la gestione efficiente di grandi volumi di dati.

Secondo l’ultima Worldwide Future of Digital Infrastructure Sentiment Survey di IDC, quasi otto su dieci aziende considerano l’infrastruttura digitale “importante” o  “mission critical” per il successo delle proprie iniziative di busines. Inoltre, l’adozione dell’IA generativa (GenAI), il miglioramento della produttività e della fedeltà dei dipendenti, e l’ottimizzazione dei budget e dei ricavi sono i principali driver delle attuali strategie infrastrutturali aziendali.

La GenAI sarà il principale motore degli investimenti infrastrutturali 

Guardando al futuro, IDC prevede che la GenAI sarà il principale motore degli investimenti infrastrutturali nei prossimi 18 mesi. Le applicazioni GenAI in tempo reale e ad alta intensità di dati costringeranno molte aziende a riconsiderare i programmi e le priorità relative alle infrastrutture digitali. Entro il 2027, il 40% delle imprese si affiderà ad architetture IT interconnesse tra cloud, core ed edge per supportare flussi di lavoro dinamici e indipendenti dalla posizione geografica. Le organizzazioni stanno già esplorando attivamente modi per integrare le proprie attività e operazioni IT con la tecnologia GenAI.

Tuttavia, molte aziende hanno scoperto che le infrastrutture e le piattaforme attuali non sono pronte a supportare il volume, la distribuzione e la sincronizzazione dei dati e delle risorse richiesti dalla GenAI.

Necessaria un’orchestrazione ottimale

La GenAI si basa su dati e risorse indipendentemente dalla loro posizione fisica, che possono essere nel cloud, nei data center centrali o in posizioni edge e IoT altamente distribuite. Questo richiede una massima orchestrazione e sincronizzazione dei vari componenti per avere successo con la GenAI. Ciò sta spingendo la richiesta di architetture infrastrutturali di nuova generazione ottimizzate per i flussi di lavoro anziché per i singoli carichi di lavoro.

Questi nuovi ambienti saranno altamente automatizzati e governati sulla base di eventi e metriche prestazionali in tempo reale, garantendo un accesso self-service e on-demand a servizi avanzati per un’ampia varietà di utenti finali.

Architetture IT interconnesse

Con queste architetture IT interconnesse, i flussi di lavoro potranno utilizzare senza interruzioni più piattaforme cloud, core, edge computing e connettività, ottenendo così maggiori vantaggi dalle nuove generazioni di applicazioni IA. IDC prevede che la spesa per le infrastrutture digitali per la GenAI supererà i 18 miliardi di dollari nel 2024 e crescerà fino a quasi 50 miliardi di dollari entro il 2027.

Italia, adozione dello smart working: a che punto siamo?

L’adozione dello smart working ha portato notevoli cambiamenti nel modo in cui lavoriamo. Mentre solo una piccola percentuale dei lavoratori svolge interamente il proprio lavoro da remoto, la maggioranza ha abbracciato la modalità ibrida, con 2-3 giorni di smart working a settimana. Questa flessibilità è stata accolta positivamente, soprattutto da coloro che aspirano a un buon equilibrio tra vita professionale e personale.

I vantaggi dello smart working e le difficoltà da superare 

Lo smart working offre una serie di vantaggi, tra cui una maggiore soddisfazione per l’equilibrio tra lavoro e vita privata, migliori performance e un risparmio economico derivante dalla riduzione dei costi di spostamento. Questo è un aspetto decisamente apprezzato dal pubblico con più esperienza e una maggiore età. Si parla quindi del vantaggio economico al di sopra di altri elementi personali come il risparmio di tempo, un elemento che si allinea molto bene al contesto finanziario del Paese.

Tuttavia, ci sono anche sfide da affrontare. Un numero significativo di lavoratori lamenta un senso di isolamento e percepisce un deterioramento delle relazioni lavorative e un rischio per la propria posizione aziendale.

I più favorevoli sono i giovani

Le nuove generazioni sembrano essere più adattabili allo smart working, pur riconoscendo alcuni svantaggi legati alla mancanza di coordinamento e confronto con i colleghi. Al contrario, i lavoratori senior mostrano maggiore resistenza e lamentano maggiormente il senso di solitudine. I settori HR, Finanza e Legale sembrano essere particolarmente colpiti dagli effetti negativi dello smart working.

Nonostante i disagi, la maggior parte dei lavoratori non cambia lavoro, evidenziando una notevole stabilità nel mercato del lavoro italiano. Tuttavia, una parte significativa dei dipendenti lamenta una diminuzione della soddisfazione e una perdita di senso di appartenenza aziendale.

Sfide tecnologiche e opportunità

Molti lavoratori lamentano la mancanza di supporto tecnologico da parte delle imprese, con una scarsa adozione di PC aziendali e connessioni internet pagate personalmente. Ciò evidenzia la necessità di un maggior impegno delle imprese nel fornire gli strumenti adeguati per il lavoro da remoto, oltre a una maggiore attenzione alla sicurezza informatica. Le criticità sono state raccolte da ASUS Business, realtà che si propone quale opzione affidabile per le aziende che cercano soluzioni tecnologiche sicure e innovative. 

Per concludere

In conclusione, lo smart working ha portato con sé una serie di sfide e opportunità, evidenziando la necessità di un’approccio olistico che consideri sia gli aspetti tecnologici sia quelli legati al benessere dei dipendenti.

Nel 2023 +8,1% donne dirigenti, e dal 2008 quasi raddoppiate

A fronte di aumento complessivo dei manager pari al +3,8%, oggi in Italia le donne dirigenti sono il 21,4%, a fronte del 12,2% nel 2008.
Lo rivela l’ultimo Report Donne sui manager privati, elaborato da Manageritalia sugli ultimi dati ufficiali resi disponibili dall’Inps: nell’ultimo anno le donne in posizioni dirigenziali hanno segnato un +8,1%, e dal 2008 sono cresciute del 92%.

Donne sempre più protagoniste del mondo del lavoro e della managerialità italiana, insomma. Anche grazie al ricambio generazionale, che vede le dirigenti donne essere il 39% tra gli under35.
E tra i quadri, anticamera della dirigenza, le donne sono già il 32% in assoluto e il 40% tra gli under35.

“Un progresso culturale e sociale”

Quanto ai settori, le donne dirigenti sono maggiori nel terziario (25,4%) rispetto all’industria (15,9%), nelle aree più sviluppate del Paese, e nelle aziende più grandi e strutturate con una valida presenza e gestione manageriale.

 “L’aumento delle donne manager nelle imprese italiane rappresenta un progresso culturale e sociale, un concreto segnale del superamento degli stereotipi che spesso hanno limitato le opportunità delle donne nel mondo del lavoro e del management aziendale – commenta il Presidente di Manageritalia Mario Mantovani -. La strada da fare per una vera parità di genere è ancora lunga, ma questi numeri dimostrano come siamo sulla giusta direzione. È interesse di tutti, anche perché le aziende con donne ai vertici performano meglio”.

I settori più rosa

L’incremento dei manager, e in particolar modo della componente femminile, è visibile in tutti gli ambiti economici italiani. A cominciare dal terziario, che segna un complessivo aumento dei manager del +5.3% (donne +8,5%).
Ottimi risultati anche per i comparti delle sanità e assistenza sociale, con un +18.3% totale con le donne che raggiungono il +20,2%.

Significativo l’incremento femminile anche nel settore dei servizi d’informazione e nella comunicazione d’impresa, che fanno segnare un + 10,5% rispetto al totale dei nuovi manager, che si ferma al +6,5%.
Tra i settori più lenti a percepire il cambiamento in atto c’è l’industria, che vede solo un +7.1% di nuove manager e in incremento manageriale complessivo del +1,8%.
In negativo il comparto dell’istruzione e dell’insegnamento, con un calo complessivo del -34.6% e addirittura – 48% per le donne.

In Sicilia più donne in posizioni apicali 

La crescita dei dirigenti coinvolge quasi tutte le regioni, con la sola eccezione di Trentino-Alto Adige (-1,8%), Molise (-1,4%), Campania (-1,5%) e Calabria (-5,3%).

Crescono di più, oltre a Puglia (+21,2%) e Valle d’Aosta (+7,2%), proprio le regioni più managerializzate, Lazio (+5,2%) e Lombardia (+5%) riporta Adnkronos. La Regione con la percentuale più elevata di donne in posizioni dirigenziali è la Sicilia (28%), seguita da Lazio (27,6%), Puglia (24%), Molise (23,1%) e Lombardia (23,3%).
Agli ultimi tre posti Trentino-Alto Adige (10,9%), Umbria (13%) e Friuli-Venezia Giulia (13,6%).

Dopo la tempesta dell’inflazione, quale sono le prospettive economiche dell’Italia?

Gli ultimi anni l’economia italiana, così come quella globale. è stata travolta dalla tempesta energetica. Un vero e proprio tsunami che ha fatto schizzare i prezzi alle stelle per un’infinità di prodotti e servizi e che, soprattutto, ha fatto alzare in modo preoccupante l’inflazione. Nel 2021 l’inflazione ha infatti iniziato la sua corsa, raggiungendo l’11,8% alla fine del 2022.
Un’impennata economica senza precedenti, che però, nel corso del 2023, si rivelò tanto effimera quanto intensa. L’inflazione precipitò, quasi annullandosi e stabilizzandosi all’0,8% entro gennaio.

Il paradosso del gap fra salari e inflazione

Anche se le notizie sembrano rassicuranti e la situazione in miglioramento, ci sono però alcuni aspetti critici. In particolare il livello degli stipendi medi non è riuscito a tenere il passo con la corsa inflazionistica, dando origini a un vero e proprio paradosso. Nel corso dei tre anni presi in esame, durante la fase inflattiva, la crescita salariale ha segnato aumenti modesti, mentre invece ha visto incrementi maggiori durante la discesa dell’inflazione.

Erosione del potere d’acquisto 

Nel primo trimestre del 2021, la crescita salariale (+0,7%) superava l’inflazione (+0,5%). Ma nel secondo trimestre, iniziò un lento declino del potere d’acquisto (+0,6% i salari; +1,3% l’inflazione). Col passare dei trimestri, l’erosione si intensificò, culminando nel quarto trimestre del 2022 con una distanza fra le due voci di oltre dieci punti percentuali .

Risalita dei salari nel 2023: calma apparente

Nel 2023, la dinamica è nuovamente cambiata. La crescita salariale intensificava il suo ritmo di crescita, mentre l’inflazione rallentava, pur rimanendo superiore di valore. Nel terzo trimestre, la forbice divenne meno ampia, con una crescita salariale del 3,2% rispetto al 5,9% dell’inflazione. Nel quarto trimestre, ecco il sorpasso: la crescita salariale l’anno scorso ha raggiunto  il 4,8% rispetto all’1,2% dell’inflazione, ripristinando il potere d’acquisto dei consumatori.

Le implicazioni sociali: il parere dell’esperto

Nonostante il recupero, Lucio Poma, capo economista di Nomisma, avverte che la situazione ha lasciato profonde ferite nelle famiglie italiane. Un periodo di impoverimento ha costretto molti nuclei familiari a utilizzare i propri risparmi o a ricorrere al credito per affrontare le spese più importanti o gli imprevisti. La ripresa richiederà tempo e stabilità, sottolineando la necessità di politiche economiche oculate per guarire questa profonda ferita economica.

Fiducia: a dicembre migliorano le aspettative di consumatori e imprese 

Lo conferma l’Istat: migliorano le opinioni dei consumatori italiani e delle imprese sulla situazione economica del Paese.
Per l’ultimo mese dell’anno l’Istat stima in generale un aumento sia del clima di fiducia dei consumatori, il cui indice in media passa da 103,6 a 106,7, sia dell’indicatore composito del clima di fiducia delle imprese, che da 103,5 sale a 107,2.

L’evoluzione positiva viene evidenziata dall’Istituto dai quattro indicatori calcolati mensilmente a partire dalle stesse componenti del clima di fiducia (economico, futuro, corrente e personale).
A dicembre 2023 il clima economico e quello futuro registrano gli incrementi più consistenti, il primo passa infatti da 111,0 a 118,6 e il secondo da 109,3 a 113,5, il clima corrente aumenta da 99,8 a 102,2 e il clima personale sale da 101,2 a 102,8.

Imprese: miglioramento in (quasi) tutti i comparti

Con riferimento alle imprese, l’Istat segnala un miglioramento della fiducia, seppur con intensità diverse, in tutti i comparti a eccezione della manifattura. Più in dettaglio, nei servizi di mercato si registra un marcato aumento, con l’indice che passa da 96,7 a 106,4, nelle costruzioni e nel commercio al dettaglio l’incremento è più contenuto (l’indice cresce, rispettivamente, da 161,3 a 162,9 e da 107,5 a 107,8), mentre si stima un peggioramento della fiducia nella manifattura: qui l’indice diminuisce da 96,6 a 95,4.

Quanto alle componenti degli indici di fiducia, nella manifattura giudizi sugli ordini e sulle scorte di prodotti finiti risultano sostanzialmente stabili rispetto al mese scorso, ma si abbinano ad attese di produzione in deciso peggioramento.

Costruzioni e commercio al dettaglio

Nelle costruzioni invece si stima un miglioramento di tutte le componenti, mentre nei servizi di mercato si evidenzia un deciso miglioramento dei giudizi sugli ordini e sull’andamento degli affari. Anche le attese sugli ordini aumentano, ma l’incremento del saldo è meno consistente rispetto ai giudizi.

Con riferimento al commercio al dettaglio, l’Istat stima una dinamica estremamente positiva per i giudizi sulle vendite, mentre le relative attese sono in diminuzione.
Tale evoluzione, secondo l’Istat è determinata dalla grande distribuzione, mentre nella distribuzione tradizionale opinioni negative sulle vendite si uniscono a un aumento delle relative attese. Quanto alle scorte di prodotti finiti, sono giudicate in decumulo.

Consumatori: l’indice sale per il secondo mese consecutivo

“A dicembre, il clima di fiducia delle imprese torna ad aumentare dopo quattro mesi consecutivi di riduzione e raggiunge il livello più elevato dallo scorso luglio – segnala l’Istituto, come riporta Il Sole 24 Ore -. L’aumento dell’indice è determinato dal comparto dei servizi e da quello delle costruzioni. L’indice di fiducia dei consumatori aumenta per il secondo mese consecutivo e si riporta, anch’esso, sul livello di luglio 2023. Si segnala un generale miglioramento di tutte le variabili che compongono l’indicatore a eccezione dei giudizi sull’opportunità di risparmiare nella fase attuale, che rimangono sostanzialmente stabili rispetto al mese scorso”.

Turismo congressuale: Italia seconda in Europa e terza nel mondo 

Secondo il database ICCA (International Congress and Convention Association) per la prima volta negli ultimi 10 anni l’Italia è la seconda destinazione in Europa per congressi associativi internazionali con 560 congressi organizzati nel 2022. Ed è la terza al mondo dopo gli USA.
Un trend che appare confermato anche nel 2023, e probabilmente anche nel 2024.

L’Italia in Europa ha superato Spagna, Germania, Uk e Francia, e siamo il Paese con più città nella Top 100 globale. Tra le prime 100 città al mondo ci sono sei italiane, Roma, Milano, Bologna, Firenze, Torino e Napoli.
Emerge dai dati presenti durante la terza edizione degli Italian Knowledge Leaders, organizzato da Convention Bureau Italia assieme a Enit – Agenzia Nazionale del Turismo, con il sostegno dal Ministero del Turismo.

Il turista congressuale spende più del doppio

Nell’era post Covid l’Italia diventa il riferimento mondiale per congressi e convegni. Accademici, ricercatori, manager e professionisti di aziende continuano ad affluire da nord a sud Italia, portando un turismo di qualità e regalando prestigio al Paese.

Il turista congressuale, poi, spende circa due volte e mezzo rispetto a quanto spende un altro tipo di turista. Ma diventare la nazione ospitante di un congresso non è scontato: le associazioni internazionali scelgono le destinazioni attraverso un processo di candidatura, ed essere selezionati con frequenza contribuisce a valorizzare il patrimonio di un Paese e le sue eccellenze.

Nel 2022 oltre 21 milioni di partecipanti e quasi 32 milioni di presenze

“È soprattutto grazie a eventi come questo che l’Italia ha conquistato nel 2022 l’ambito podio della graduatoria ICCA, posizionandosi come terza Nazione a livello mondiale e seconda in quello europeo per il numero di congressi organizzati – commenta il ministro del Turismo Daniela Santanché -, caratterizzandosi per un sistema congressuale che ha saputo attirare oltre 21 milioni di partecipanti e quasi 32 milioni di presenze complessive. Il turismo dei congressi è una delle leve strategiche tra le più efficienti e funzionali dell’industria turistica, e a buon diritto rientra nella strategia di destagionalizzazione che abbiamo presentato al Primo Forum Internazionale del Turismo di Baveno, e che porteremo avanti con l’aiuto delle Regioni e i grandi operatori del settore”.

Un’industria più sostenibile del turismo
Dopo la pandemia le nazioni hanno ospitato meno congressi, ma l’Italia è lo Stato che ha saputo ripartire al meglio, anche grazie al lavoro delle associazioni locali.

“La nostra è un’industria che spesso viene confusa con quella del turismo, ma in realtà se ne differenzia molto per l’impatto positivo che lascia sulle destinazioni in termini di legacy e di sostenibilità – puntualizza Carlotta Ferrari, presidente del Convention Bureau Italia -. Un’industria che, inoltre, ha ai vertici delle proprie aziende una donna su tre. È importante che il pubblico ed il privato continuino a lavorare insieme, e che ci siano costanti investimenti in un settore così strategico per lo sviluppo delle destinazioni italiane”.